La libertà del traduttore.
È noto a tutti che il compito principale del traduttore consiste nel trasporre un messaggio da una lingua ad un’altra senza alterarne in alcun modo il significato. Meno ovvio è come il traduttore possa dare concretezza a questa esigenza semantica. Se, come molti affermano, tradurre significa interpretare e riscrivere, ciò vuol dire che il traduttore dovrebbe godere di una libertà illimitata sia nella scelta del lessico che della sintassi, ritenute da lui più adeguate ad esprimere al meglio il concetto da tradurre. In realtà, questa posizione teorica, ad eccezione di alcuni settori specifici come ad esempio la traduzione pubblicitaria, non trova quasi mai riscontri nell’applicazione pratica. Uno dei motivi della poca libertà del traduttore è il rispetto ossequioso che lo lega al modello originale da tradurre. Il traduttore, specie se alle prime armi, nutre verso il testo da tradurre un timore quasi reverenziale. Egli porta sulle proprie spalle il peso dell’identità e delle parole di qualcun altro. Mentre traduce, egli s’interroga costantemente sulle scelte che adotta avendo come unico referente soltanto il testo. È proprio attraverso il dialogo e il confronto col testo che si pone la questione sul rispetto, a cui prima ho accennato. La domanda che assilla il traduttore è sempre la stessa -“qual è il senso?”- e non c’è modo di giungere ad una risposta convincente se non affrontando il problema alla radice; che vuol dire tentare di dare una risposta soddisfacente anche ai seguenti quesiti: “Per quale motivo l’autore ha scelto di utilizzare quel termine e non un altro?”, “Che significato assume questa parola nel contesto letterario in cui si trova?”, “Qual è l’uso abituale della parola nel contesto culturale della lingua a cui appartiene?”, “Esiste un’equivalenza lessicale, semantica e culturale di questo termine nella lingua d’arrivo?”, ecc.
Il problema si complica ulteriormente se si considera l’inevitabile “entropia” a cui è soggetto il linguaggio umano. Immaginiamo una stanza in cui trenta persone ascoltino un relatore parlare per ore di alberi senza fornire alcun riferimento preciso al tipo di alberi a cui accenna. Alla fine della conferenza, potendo domandare a ciascun auditore che tipo di albero abbia immaginato come referente, certamente ognuno di essi avrà risposto con il nome di una pianta diversa. Personalmente, essendo nata in Puglia, la parola “albero” mi fa pensare ad un ulivo o ad un pino, ma ci sarà qualcun altro a cui la stessa parola evocherà un abete o un albero tipico della propria regione. Quando qualcuno parla, o scrive, compie già un’operazione di traduzione dal concetto, sotto forma di immagine, che è nella sua testa all’espressione verbale, la forma-parola, che sceglierà di utilizzare per codificarlo. La scelta di una parola generica, come per l’appunto può essere “albero”, crea una certa ambiguità semantica rendendo l’interpretazione del ricevente “libera”.
Pertanto, il margine di libertà del traduttore, a mio avviso, aumenta con la diminuzione della “specificità” del testo. Proprio a causa dei problemi derivanti dall’interpretazione, i testi legali o tecnici difficilmente permettono una traduzione libera. Eppure, anche in questi casi, la terminologia tecnica è sempre legata al grado di inderogabilità dei tecnicismi. A tal proposito, Domenico Cosmai, professore in Lingua e traduzione inglese e traduttore presso il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni dell’Unione europea, nel suo libro “Tradurre per l’Unione europea”, afferma: “[…] il termine tecnico ha senz’altro un valore cogente quando il documento da tradurre si richiama a un testo preesistente in materia (una direttiva che ne modifica una precedente, un parere del CESE o del CdR che si esprime nel merito su un determinato documento della Commissione) o, per forza di cose, quando non esiste un’alternativa lessicale. Quando però tali circostanze vengono meno, la terminologia specialistica può perdere il proprio carattere vincolante ed essere tradotta in base alla sensibilità e alle scelte del singolo traduttore”. In altre parole, nel caso in cui il testo tecnico da tradurre, pur richiamando una letteratura specifica di riferimento, non vincoli il traduttore all’uso di una terminologia imposta, sia attraverso l’esplicito riferimento ad un testo normativo precedente o all’esistenza di un glossario già sperimentato, la libertà del traduttore appare, in qualche misura, salvaguardata.
In conclusione, il dilemma del traduttore è quello che ben descrive V.G. Koutsivitis nel suo articolo “La traduction juridique; étude d’un case: la traduction des teste législatifs des Communautés européennes et en particulier à partir du français vers le grec”, ovvero di riuscire a tradurre ottenendo: “l’equivalenza inedita pertinente che trasferisce il senso rispettando lo spirito della lingua d’arrivo”.